L’Acrobata

«Lui è vivo. L’abbiamo visto alla televisione questa sera, appena sei ore dopo. Ci siamo guardati in silenzio, pallidi di angoscia, nessuno voleva crederci. Non sento niente. È come se fossi stato colpito da un plotone di esecuzione. È vivo. Il mostro è vivo. E con lui vive la vergogna. Vive la bugia. Vive la rassegnazione. Vive il terrore. Vive l’adeguarsi all’ingiustizia. Abbiamo fallito, per questo ci siamo salvati. Rivedo la stessa scena dieci, cento volte. Impazzisco a pensarci. Cosa non ha funzionato? Abbiamo sparato dieci razzi, solo tre sono esplosi. Non siamo riusciti a fermare la macchina. Che cosa dirò ai compagni di partito? E loro, cosa ci diranno? Prima eravamo degli eroi, dei liberatori, ora un manipolo di pazzi. Se fosse andato tutto bene sarebbero stati i primi a prendere gli onori. Noi continueremo la nostra lotta. Non ci fermeremo. Otro día».

Lui è Augusto José Ramón Pinochet Ugarte. Capo di stato maggiore dell’esercito cileno, l’11 settembre 1973 tradì il suo presidente Salvator Allende e prese il potere con la violenza. Fece bombardare La Moneda, il palazzo presidenziale, dagli aerei dell’aviazione militare e lo prese d’assalto. Il presidente legittimo Allende morì durante l’assalto e il Cile entrò nei suoi decenni più duri, sotto una dittatura militare di sangue e terrore, dove molti oppositori, ma anche molta gente comune, fu vittima di violenze, torture e poi sparì, senza lasciare traccia.
Chi parla in questo testo è José Valenzuela Levy, nome di battaglia comandante Ernesto, colui che organizzò e diresse nel 1986, a soli vent’otto anni, il fallito attentato contro il dittatore. Pinochet si vendicò con furore: una catena di torture e delazioni, portò alla Matanza de Corpus Christi, l’uccisione di dodici membri del commando, sette dei quali assassinati con un colpo alla nuca in una casa abbandonata dove poi fu inscenato un enfrentamiento, un conflitto a fuoco, ad uso del mass media.
Chi ha scritto questo testo è Laura Forti, scrittrice e regista fiorentina. José, detto in famiglia Pepo, è suo cugino. Ma prima di scoprire che Pepo e il comandante Ernesto fossero la stessa persona, Laura ha dovuto affrontare un lungo viaggio nella storia della sua famiglia.
Il testo nasce innanzitutto come omaggio alla madre di Pepo, a cui si è ispirata la protagonista di questo spettacolo, andata bambina in esilio a Santiago fuggendo l’Italia fascista delle leggi razziali, tra le prime donne geologo del Cile, militante comunista, rifugiata in Svezia dopo il golpe di Pinochet.
Ma la Madre è ispirata anche a tutte quelle donne che hanno perso un figlio perché ha scelto di morire per un ideale. Che cosa vuol dire trasmettere a un figlio i propri ideali di libertà, educarlo all’amore per la giustizia, per poi rendersi conto che lui vive tanto intensamente le tue stesse idee da trasformarsi in un combattente, scegliere la lotta armata, incontrare una morte atroce? Può voler dire cercare di alzare un muro che nasconda il passato e la ferita di quella perdita insanabile. Ma nella nostra storia, Pepo ha lasciato un figlio e sarà per questo nipote che non ha mai conosciuto suo padre e vuole sapere chi era – che il muro crollerà e diventerà racconto.

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