Nema problema

Come si fa a raccontare la guerra, a sentire il dolore, a calarsi nell’esistenza spezzata di chi soffre? Davanti alle tragedie, alla shoah o alle migliaia di vittime della fame e dei conflitti attualmente in corso in tutto il mondo, proviamo un pathos generico: li percepiamo come massa, come cosa distante da noi e dalle nostre vite ordinate. Sono lì, da qualche parte, lontano nel tempo e nello spazio e pensare per un attimo che questa massa generica sia composta da persone reali ci schianterebbe di colpo la corazza, sarebbe uno strazio, una vergogna troppo grandi. Così restano corpi ammassati senza nome, e per noi che guardiamo il mondo dalla finestra della televisione, seduti nelle nostre case, sono immagini virtuali rubate ai telegiornali, cifre e statistica. Questa storia ha molto a che fare con quel mondo che sta fuori, dall’altra parte dello schermo. E’ una storia vera, me l’ha raccontata un mio amico che l’ha vissuta e parla di una guerra, quella che c’è stata a partire dal 92 nella ex Jugoslavia, e di come lui, a ventitre anni, per puro caso, si sia ritrovato a combatterci. All’inizio, è un ragazzino, con la macchina fotografica, un bauscia come lui stesso si definisce in dialetto milanese, che pensa che la guerra sia un reportage alla Robert Capa, tante immagini forti in bianco e nero. Poi, giorno dopo giorno, inizia una sua personale discesa all’inferno e nel dolore vero: i massacri dei villaggi, i tradimenti, l’odio della gente, i crocifissi sradicati, le moschee profanate, il tenere in braccio un compagno che muore. Tutte cose che non capitano a chi sta alla finestra. Quello che mi ha colpito nella sua storia, a parte l’orrore degli episodi che mi raccontava – un orrore a cui, come ho detto, siamo ormai terribilmente abituati e anche “anestetizzati” – è stato però il “dopo”, quello che è successo quando è tornato a Milano: il suo chiudersi in casa a guardare il muro, il suo vedere immaginari cecchini sui tetti delle case, il rifiuto di prendere i farmaci per il bisogno rabbioso di ricordare, il volere che gli altri gli facessero una domanda, che rompessero il muro di indifferenza e il bisogno di scappare al parco per rinchiudersi in una campana di silenzio. Mi chiedevo, come si fa a riprendere vita e giovinezza, dopo che hai visto la morte e la crudeltà, dopo che hai assistito a quello che può fare di orribile un essere umano ad un altro essere? Non so se una ferita come la sua guarirà mai, non so se sia possibile tornare alla propria vita e salvarsi, una volta che la corazza è forata e il dolore ci ha morso. Ci sono riusciti i sopravvissuti ai lager? Voi ci riuscireste, io ci riuscirei?
Rappresentazioni:
ITALIA:
“Nema problema” è stato messo in scena nel febbraio 2008 al Teatro Cometa Off da Pietro Bontempo e interpretato da Giampiero Judica e dal 2008 è in cartellone al Teatro due di Parma con ampi consensi. Nel marzo 2012 è all’Elfo Puccini di Milano ed è stato rappresentato in molti teatri sul territorio nazionale.
FRANCIA:
In Francia è stato letto da Gilles David al Theatre National de Strasbourg nel dicembre 2007; al Theatre Vieux Colombier (Comedie Francaise) nell’aprile 2009 sempre Gilles David ne ha fatto la sua “Carte blanche”; è stato prodotto da Alain Batis, Compagnie La Mandarine Blanche, con Raphael Almosni, debutto al Theatre Epèe de Bois, Parigi 2010.
Traduzioni:
tedesco, francese (Emiliano Schmidt Fiori).
Pubblicato dalla rivista Sipario e, insieme a Pesach,  dalla casa editrice Actes Sud, 2009.
IN DUE RIGHE:
Io credo che c’è una morte pulita e una sporca. La morte pulita è beccarsi una pallottola in mezzo agli occhi, andarsene così, con dignità. Essere messo in un sacchetto di plastica, ricomposto, con il tuo nome sopra. Anche questo è un lusso in guerra. Ma il morto lasciato lì per settimane quella è la morte sporca. Perchè non è come i film. Ai morti la faccia gli diventa nera, gonfia, e dopo qualche giorno dell’umano non resta più nulla. E’ quella la paura vera, l’idea che resti lì a putrefarti senza che nessuno faccia niente. Senza la medaglietta, senza documenti, senza una preghiera. E’ come cadere in una voragine in cui vieni inghiottito. Non c’è compostezza in quella morte. Non c’è traccia di ordinato, di dignitoso. Quando trovavi questi morti, lasciati a marcire nei boschi di pioppi, non c’erano solo i corpi, no trovavi di tutto intorno, trovavi merda, sacchetti di plastica sventrati, vestiti buttati in giro, come se ci fosse passato un branco di cani. Sai cos’è terribile di questa guerra qua? Che hanno ridotto il corpo e la vita a mero pattume. Quando trovavi quei corpi abbandonati trovavi anche il dolore e la paura, restava nell’aria anche dopo. Restava nell’aria la solitudine. E infatti gli animali lo capivano e non cantava neanche un uccello in quei boschi. Anche quando era primavera e tutto era verde, perchè quei posti son verdissimi, è bella la Croazia in primavera, però, credimi, non cantava neanche un uccellino. Fanno così il requiem ai morti, gli uccelli, smettono di cantare.

Vuoi vedere un frammento di video?
http://www.youtube.com/watch?v=OzLypFs5o_8 – edizione italiana
http://vimeo.com/15053586 – edizione francese

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