Odore di santità
Un prete si confessa a un Arcivescovo: parla della solitudine, dell’infanzia, del sacerdozio, degli abusi subiti, di quelli inferti. Seguendo il racconto della sua lenta e inconsapevole deriva verso il male assoluto, da bambino incapace di dire “no” ad adulto impossibilitato ai sentimenti, il pubblico viene portato nella mente e nell’anima di un uomo di Dio, di un assassino, che prende la forma di una strana, raggelata stanza dei giochi. Un coagulo di memorie infantili mai articolate in coscienza adulta, uno sconcerto di voci dal passato che reclamano attenzione. La banalità del male prende l’aspetto di un bambino sensibile, intrappolato in un corpo adulto e tormentato, portato in scena da Salvatore Cantalupo (già interprete di Gomorra di Matteo Garrone, recentemente Don Mario in Corpo celeste di Alice Rohrwacher).
Le prime cose che mi hanno colpito nel leggere il potente testo di Laura Forti sono proprio gli odori. E i sapori. Odori che contengono in sé una strana ambivalenza, che sono insieme inebrianti e un po’ nauseabondi, familiari ma capaci, al tempo stesso, di stordire. E questi odori abitano ambienti desolati e come sospesi: cortili di caseggiati popolari, colonie estive, sagrestie, aule di seminari, refettori, corridoi di vecchie scuole, dormitori, modeste canoniche; luoghi spesso colti in una specie di tempo fermo, in uno iato dell’esistenza o in un torpore della coscienza in cui tutto è possibile, e può accadere di attraversare, con leggerezza e distrazione, soglie da cui non si torna indietro. Odore di santità racconta questa lenta e inconsapevole deriva verso il male assoluto di un bambino incapace di dire “no”, che ha capito che il solo modo per placare la sua angoscia, per sentirsi meno solo e indifeso, è quello di compiacere gli adulti che lo circondano, di anticipare le loro aspettative e soddisfarle. Dimenticando se stesso. E al di sopra di tutto un Dio che non irradia alcun amore, neanche lui.
Massimiliano Farau
E’ stato messo in scena al Teatro due di Parma, novembre-dicembre 2011, con Salvatore Cantalupo, regia di Massimiliano Farau.
In due righe:
Mi ha preso per mano, Eccellenza, per andare a fare il riposino ma mentre stavamo andando nella tenda ho sentito tutto il pranzo tornarmi su e ho iniziato a vomitare per terra, patate, calamari e pesciolini che sembravo la balena di Pinocchio, perchè alcuni erano ancora interi, me li ero messi in bocca e buttati giù senza neanche masticarli per far ridere la mamma. Ha ripulito tutto mentre io tremavo col vomito ancora addosso, poi mi ha trascinato nelle docce e mi ha detto “spogliati” e ha cominciato a insaponarmi e siccome si bagnava si è tolto la sottana e sotto non portava nulla, neanche le mutande, e ci siamo ritrovati a fare la doccia insieme e io non avevo mai visto un uomo nudo per giunta un prete ma lui ha detto che non c’era nulla di male, che era una cosa che si faceva tra uomini, solo una rinfrescata, e mi ha chiesto di insaponarlo, mi ha fatto vedere come si faceva. Poi ci siamo rivestiti e siamo andati a fare il riposino.
(Si alza, va alla camicia appesa al separè, la indossa)
Da quel momento però, Eccellenza, tutte le volte che guardavo il prete meno dolce pensavo che sotto la sottana non portava le mutande e che io lo avevo insaponato sotto la doccia. Pensavo a quella cosa molle che avevo insaponato che diventava dura quando facevamo il riposino. Pensavo all’odore del prete, che era un misto di sudore e di amido per camicie e pensavo che forse era quello l’odore di santità di cui tutti parlavano, che era una cosa che stava sulla veste dei preti, che non li lasciava mai, neanche quando erano nudi.
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