Il trinagolo della badante – D di Repubblica
di Monica Capuani da D di Repubblica – 15 novembre 2008
Dire drammaturgo contemporaneo in Italia equivale a evocare un animale fiabesco come l’unicorno o il sopravvissuto di una razza che s’avvia tristemente all’estinzione, non avendo superato la selezione naturale. Neanche il successo internazionale è garanzia di ritorno glorioso sui palcoscenici italiani. Consapevole di questo, Laura Forti è partita per Santiago del Cile, dove il suo testo La badante: una storia di fantasmi, vincitore della XIII edizione del Premio all’autore Enrico Maria Salerno, è passato con successo al Festival de Dramaturgia Europea Contemporanea. È la storia di tre solitudini: la vecchia signora bisbetica che ha perso la figlia a causa dell’eroina e della propria indifferenza; Svetlana, la sua badante rumena inghiottita dalla fatica e dalla disillusione del “bengodi” italiano;
Roxana, figlia di quest’ultima, tradita dall’assenza della madre durante l’infanzia e decisa a non ripercorrerne le orme, incinta del padre della famiglia italiana per la quale ha lavorato. Nella asfissiante stanza in cui le tre donne s’aggirano come lupi in gabbia, aleggiano i fantasmi della figlia tossica della padrona di casa e dell’oppressiva madre di Svetlana.
La sua pièce s’ispira a una situazione sempre più comune nel nostro Paese. “Ho già parlato di donne e immigrazione negli anni ’90 nel mio primo testo, Le nuvole tornano a casa, scritto nel periodo del “boom albanese”. È la storia d’una prostituta reclusa in una stanza d’albergo e di una cameriera che entra in contatto con quel mondo: un incontro che potrebbe diventare amicizia ma finisce tragicamente quando l’italiana deve lasciar entrare davvero l’altra nella sua vita: una scelta di rottura. Allora mi ero documentata, in uno slalom tra istituzioni e associazioni, incontrando a fatica ragazze rapite, costrette a prostituirsi. A una di loro, Mirieta, era dedicato il testo. L’immigrazione femminile è un mondo ancora più misterioso di quello maschile: nel teatro mi viene in mente l’immigrato in Schifo di Robert Schneider, al cinema la colf est-europea di La sconosciuta di Giuseppe Tornatore. Nel caso delle badanti, siamo davanti a silenzio ancor più grave, aun vero e proprio “furto di vita”: chiediamo loro d’amare, prendersi cura dei nostri vecchi, dei nostri figli, instauriamo un rapporto ambiguo di familiarità, ma di loro non sappiamo nulla, e fingiamo di non capire che quando si avvicinano ai nostri bambini in realtà spesso vedono i loro. Così la ferita tutte le volte si riapre. La storia di La badante in parte è nata dall’incontro con una persona che in questi anni è entrata a far parte della mia vita, di quella di mia madre, una donna che viene dalla Romania e mi ha raccontato un po’ di sé. Una persona che ha sofferto molto, cui voglio bene: ho parlato a lungo con lei e con altre badanti”.
Che realtà le hanno raccontato?
“Ogni storia è diversa, ma quel che viene fuori è uno spaccato da brivido della famiglia italiana: scene di ordinaria crudeltà, genitori che litigano furiosamente, e queste donne che si trovano a dover difendere i bambini. O madri di famiglie bene che vanno in palestra tre volte la settimana e si dimenticano di pagare la collaboratrice domestica a fine mese, o signore gelose dell’affetto dei figli per queste presenze più assidue di loro, che si vendicano umiliandole, colpendole anche fisicamente, licenziandole in tronco alla faccia dei loro diritti. Come si sentono? Depresse, perché reprimono sentimenti vitali come rabbia e paura, sono sole e continuano a sentirsi al di fuori della società italiana nella quale vivono da anni”.
Il suo testo dà la sensazione che nei due mondi, di servi e padroni, non ci sia possibilità di felicità né
salvezza.
“È così, perché manca la vita, quella verità che si manifesta quando si esce dall’acquario narcisistico e si riesce a sentire, provare dolore. Se affrontassero i loro fantasmi, la Signora e Svetlana non reggerebbero l’urto: così restano nelle rispettive gabbie, a condurre una esistenza miserabile. La Signora, simbolo del mondo occidentale, consumistico, anestetizzato, inaridito, invecchiato, ma che non ha alcuna intenzione di morire o sentire il dolore degli altri, e Svetlana, che continua a raccontarsi la storia d’un paese dove potrebbe tornare, una casa, un’appartenenza, e proietta sul bambino che deve nascere la maternità che non ha potuto vivere, rubandola alla figlia che non la vuole. La ragazza rompe davvero la gabbia, crea altre regole, fa una scelta violenta e non si vuole identificare nella madre. Forse non avrà mai un’identità sua, in quel fuori che l’aspetta dovrà vivere senza un cuore, ma sceglie di uscire”.
L’idea dei fantasmi è efficace teatralmente: era presente fin dall’inizio?
“Questo è un testo d’atmosfera, per me, una storia di fantasmi, finestre che si
aprono, armadi che rivelano segreti, porte che fanno intravedere ombre, foto che appaiono e scompaiono. Il vero fantasma che tormenta tutti, però, è la mancanza d’amore. Non riusciamo a darcelo, incapaci di vedere l’altro, provare qualcosa per lui. Questo fantasma ci tormenta, non ci ha/dà pace”.
La badante viene prodotta per la prima volta non nel suo Paese ma in un altro continente. Che effetto le fa? “Ci sono abituata, da anni lavoro all’estero. Ho mandato Le nuvole tornano a casa a un concorso in Austria: non ho vinto, ma il testo è stato notato, e un’agenzia l’ha fatto tradurre e pubblicare sulla storica rivista berlinese Theater der Zeit. Così il testo è andato in scena molte volte e in diversi teatri. In Francia sono arrivata attraverso il testo Pesach/Passaggio, che nel 2001 ha vinto il premio Betti. Il regista franco-tedesco Lukas Hemleb ne ha fatto una bella produzione al Théâtre de la Ville a Parigi, nel 2004, con molto successo. Certo è una vita dura. Con pazienza, la valigia sempre in mano, continuo a girare e oggi i miei testi sono presenti nei cartelloni di vari Paesi. In Francia mi pubblica Actes Sud e il mio Nema problema in aprile approderà alla Comédie Française. Il problema in Italia è che i teatri non producono nuovi autori, e se lo fanno non garantiscono una vera distribuzione. Non credono che questa drammaturgia possa piacere al pubblico, fatta eccezione per pochi autori/attori (Paolini, Celestini, Enia), che sono già riusciti a ritagliarsi una loro collocazione. Il Cile è il posto più lontano dove sono stata rappresentata, è il Sudamerica dove emigrarono i miei parenti negli anni ’40 per sfuggire a Hitler, il Paese della dittatura di Pinochet, della memoria pesante ma in continua trasformazione, che ora ha una donna presidente. Combinazione assai stimolante per un appetito drammaturgico”.
Il fatto di essere stata un’attrice ti aiuta nella scrittura drammaturgica?
“La prima cosa che ho scritto, Dimmi, un monologo sulla storia della mia famiglia ebrea, me la sono cucita addosso. Essere attrice mi aiuta perché cerco di scrivere “sentendo” le parole, provando a immaginarle come un vestito per un attore, confezionato in modo che non lo faccia sfigurare o gli stia così stretto che non possa respirare. Ma che gli piaccia. Il mio sogno sarebbe scrivere per una compagnia stabile: provare con gli attori, conoscerli, fondere la loro sensibilità con quella dei personaggi “in progress”. Sarebbe rigenerante per scrittura e messa in scena. Intanto ho completato la trilogia di Nema problema con Odore di santità, confessione d’un prete abusato/abusatore tormentato dalla sessualità che uccide l’oggetto del suo amore, e Blu, storia femminile d’aborto e libere scelte”.