La forza dell’immaginazione – Flavia Foradini (Sipario)

La forza dell’’immaginazione.

Quattro domande all’’autrice su Nema problema 

a cura di Flavia Foradini – Sipario.

Perché il tema della guerra per Lei, autrice donna? 

“Credo che se si sta in ascolto del mondo, prima o poi ci si imbatte nella guerra. Della guerra, a dire il vero, sentiamo parlare tutti i giorni ma ormai ab- biamo sviluppato una certa impermeabilità, come del resto davanti alla shoah, alla fame, al dolore: un grande muro di retorica ci separa dal sentire veramente. E d’altra parte, come si fa a sentire qualcosa che non abbiamo vissuto, come si fa a rac-

contarlo? Ci sono davvero argomenti, come la guerra, la

shoah, dei quali è impossibile parlare? (penso al fa- moso silenzio a cui si riferiva Wiesel). Una volta una sopravvissuta rispose a uno scrittore israelia- no, che si accingeva a scrivere della shoah e le chiedeva come avrebbe potuto descrivere quell’e- sperienza senza averla vissuta direttamente: ‘Caro, usi tanta immaginazione’.

La battuta è forte e spiazzante, ma credo che per arrivare a questo sentire viscerale non basti ri- correre alle proprie riserve di fantasia, debba scat- tare una molla personale, un bisogno di approfondi- mento: allora si apre una falla nel muro della reto- rica e una possibilità creativa. La mia è scattata per caso quando ho scoperto che un mio amico mi- lanese ha passato due anni della sua vita a com- battere nell’esercito croato. Ha cominciato a rac- contarmi la sua storia ed è nato questo monologo. Ho cercato di interpretare i sentimenti complessi e contraddittori che uscivano fuori dal racconto – sentimenti che mi corrispondono e mi interessano molto – la rabbia, la vergogna, l’impotenza -, e di integrare con l’immaginazione, esattamente come ho fatto per i miei testi sull’immigrazione e sull’o- locausto. Quello che mi ha colpito di questa storia è l’odissea dell’uomo comune, lo strappo: il fatto che uno normale, dalla sua realtà qualunque di venti- treenne milanese (la ragazza, l’hobby della fotogra- fia, la frequentazione del centro sociale) per un ca- so strano della vita si possa ritrovare catapultato dall’altra parte del televisore, nella follia della guerra.

Mi è sembrato interessante questo sguardo: un viaggio e una prospettiva nei quali possiamo tutti identificarci”.

Perché in forma di monologo? “Secondo me questa storia di denuncia richiede

gli occhi negli occhi, cerca un contatto viscerale con ognuno di noi. È un grido di vergogna, di orrore. È una storia sulla difficoltà di comunicare, di condivi- dere un peso e una memoria. Se penso a questo monologo mi viene in mente l’immagine di una gab- bia: il protagonista sta lì, esposto al giudizio, suo e degli altri, protende le braccia ma non può uscirne. È imprigionato dalla sua stessa coscienza.

Mi piacerebbe che si partisse da un rapporto ‘uno contro tutti’ e si arrivasse ad una comparteci- pazione e a un’identificazione del pubblico nel per- sonaggio. Una specie di rituale di condivisione e di liberazione: si sa, l’alleggerimento si ha solo dopo essere passati per la pesantezza. E allora, questa storia pesante è una corsa nell’orrore e richiede uno spettatore con buoni muscoli, pronto a fare un viaggio autocritico nella vergogna, per poi magari risorgerne”.

Che ruolo assegna alla musica in questo testo? 

“La musica è la salvezza. Non voglio fare inutile retorica ma quando sei disperato ti attacchi al bel- lo, alla speranza che ci sia qualcosa di bello. Il pro- tagonista alla fine del suo percorso, tornato alla sua vita normale, non può ‘ricominciare’ un’esi- stenza come gli altri, perché non è più lo stesso. È condannato al silenzio perchè non riesce a comuni- care con le parole quello che visto, un po’ quello che succedeva ai sopravvissuti ai lager. Recente- mente mi ha molto colpito una frase di Imre Kerte- sz, sopravvissuto ad Auschwitz, premio nobel per la letteratura e autore di Kaddish per il bambino non nato. L’io monologante del racconto dice, a giu- stificare il suo ossessivo bisogno di scrivere, ‘se non lavorassi, esisterei’.

Esistere, accogliere la pienezza della vita e dei sentimenti, possono risultare insopportabili a chi ha vissuto l’orrore, un orrore che non è compren- sibile o condivisibile da parte degli altri.

E allora o ti chiudi in te stesso e ti uccidi o ti butti in qualcosa, il lavoro per esempio, che ti di- fende da quel sentire ‘troppo’ caldo. Il mio perso- naggio si butta nella musica e alla fine è lì che tro- va le parole per esprimere il suo magma e inizia a guarire.

Da qui il paragone con Charlie Parker e la sua ‘Lover man’. Come il musicista icona dell’emargi- nazione e della solitudine, anche il mio personaggio si sente relegato ai Margini della realtà e alla di- sperata ricerca di un linguaggio. La musica opera davvero un miracolo, guarisce veramente quella fe- rita? Non lo so. Però il sax si sostituisce al fucile e alla fine la vita in qualche modo torna a scorrere”.

Il Suo monologo sta per essere tradotto in francese e in tedesco, in una versione in cui lei ha tolto lo sfondo milanese e delocalizza l’azione, pur lascian- dola ancorata ad una metropoli. Nella versione ita- liana la scelta di Milano è solo dettata dalla reale biografia dell’amico che ha ispirato il testo, o vi sono altre ragioni?

“A parte il fatto che il mio amico, Simeone, è milanese e mi piaceva il suo modo di raccontare, secondo me una certa cadenza dialettale, l’apparte- nenza a un territorio contribuiscono a togliere dal- la storia qualsiasi neutralità. Non è una storia asettica, non è un esempio astratto. È la storia di uno che aveva una ragazza, andava al Leoncavallo, a bucar la carta al poligono con i vecchietti e i ra- gazzini, un bauscia, come si definisce e si ritrova strappato da quella vita. Credo che dare al perso- naggio un dialetto o una città possa contribuire a farci capire che tutto questo è successo a una per- sona come tante, in una città come tante. E che la sua vita era come tante, ma anche unica. Che que- sta persona aveva un’esistenza ‘prima’, una me- moria, un passato a cui non è stato più possibile ritornare”.

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